Crisi energetica, l’eterno ritornoL'idea di Antonio Picasso

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La guerra russo-ucraina conferma la debolezza dell’Occidente dal volersi scardinare da paradigmi geopolitici ed economici fallimentari. Se il capitalismo neoliberale vuole davvero andare avanti, deve compiere uno sforzo epocale. In chiave politica, economica e finanziaria. Facendo ricorso all’innovazione tecnologica di cui è tenutario.

TRISTE DEJÀ-VU   

L’attuale emergenza energetica e delle materie prime è un eterno ritorno dell’uguale. Scoppia una crisi in un Paese fornitore, le industrie occidentali di trasformazione si accorgono di essere troppo dipendenti da quel cordone ombelicale, impennata dei prezzi, frenesia dei mercati, panico dei consumatori, misure tampone dei governi, rientra la crisi e tutto torna come prima. Film già visto. Soprattutto in termini di errori strategici, mancati interventi strutturali, assenza di visione. L’auspicio che l’esperienza della guerra russo-ucraina sia diversa dal passato ha poco fondamento. Dovevamo uscirne migliori già dalla pandemia, che ha inceppato le catene globali di fornitura, eppure né nelle intenzioni di Usa e Ue, né nel Recovery Plan di quest’ultima – per attenersi a un documento concreto – sembra che si indichi una strada per svincolarsi dagli approvvigionamenti monopolistici e creare così un network davvero globale e sostenibile di interscambi tra chi è ricco di risorse naturali e chi invece ne ha bisogno per il proprio ecosistema manifatturiero.

L’economia però, oltre a essere una scienza triste, invita alla simulazione. Ovvero a immaginare ottimisticamente come si potrebbe migliorare il mondo. Quindi lasciando da parte la convinzione morale per cui nemmeno un conflitto nel nostro giardino di casa ci insegnerà qualcosa, ipotizziamo quali alternative possa trovare il nostro capitalismo neoliberale per evitare di cadere in trappole già note.

UN NUOVO COLONIALISMO? NO, GRAZIE

C’è l’opzione del ritorno all’imperialismo da parte dell’Occidente. Con le forze militari di cui dispone l’Occidente, pardon gli Usa, e al netto della deterrenza nucleare, pochi governi, tra Asia, Africa e Sud America, potrebbero contrastare la rinascita del Raj britannico, questa volta però sotto il controllo dell’Impero benevolo. Un paio di guerre, magari più rapide di quella in cui si sta impantanando Putin, e il colonialismo tout court tornerebbe agli onori della cronaca. Chi ce lo vieta? Il senso di colpa. D’accordo, abbiamo già fatto abbastanza danni in passato. Ma soprattutto non tornerebbero i conti. Gli imperi coloniali, a metà del Novecento, vennero smantellati perché i governi della madrepatria non riuscivano a sostenerne le spese. Figuriamoci oggi.

INTERVENTO TRIDIMENSIONALE 

Il Piano B, ovviamente l’unico fattibile, richiede una serie di interventi concentrici.

In ambito politico bisogna capire cosa fare: vogliamo continuare a fare affari con i Saddam, Gheddafi e Putin di turno? Per poi all’improvviso accorgerci che sono Saddam, Gheddafi e Putin! Casi come Franco in Spagna e Pinochet in Cile vanno in controtendenza: figli di buona donna (Kissinger cit.), costretti dai tempi a traghettare i loro regimi verso la democrazia. Funzionò. Ma a costo appunto di tempi e soprattutto sangue. Si può invece prevenire l’avvento di regimi totalitari? Il modello neo-con dell’export democracy induce a una risposta negativa. D’altra parte sostenere apertamente le espressioni di dissidenza interna, anche a costo di sacrifici economici – con i diamanti sporchi di sangue non si tratta. Punto. Giusto a titolo di esempio – può portare ai suoi benefici. Pensiamoci.

Sul fronte industriale, è prioritario scardinare il dogma per cui alcuni prodotti o sistemi di produzione siano dannosi senza se e senza ma. La battaglia ideologica contro i combustibili fossili, quanto anche contro alcune commodity nell’ambito dell’agrifood vediamo a quali drammatici effetti sta portando oggi. Fino a nemmeno un mese fa, carbone, rigassificatori, olio di palma e Ogm erano all’indice secondo la tassonomia Ue. Una censura economica dettata, a dire di Bruxelles, da rilevazioni scientifiche. Questi studi, tuttavia, si sono rivelati sufficientemente deboli da essere archiviati dans l’espace d’un matin. È segno che certe scelte siano troppo esposte al sentiment della piazza, come a specifiche tendenze del marketing. Al contrario, è necessario implementare politiche industriali all’insegna del mix energetico e della diversificazione delle materie prime. Sia come materiale, sia come paese di provenienza. Questo vuol dire globalizzazione virtuosa. 

Infine la sfera finanziaria. Il conflitto in corso ha messo in luce gli squilibri delle materie prime, controllate dalla Russia, come quelli dei mercati dei capitali. Non è un caso che, al momento, il confronto volge al pareggio. Noi rischiamo di restare al freddo e a secco di benzina, mentre per loro carte di credito e bancomat valgono meno della tessera del circolo del burraco. L’esperienza dell’Opec, dalla sua nascita a oggi, si è dimostrata tutt’altro che coerente con l’obiettivo originario. E cioè regolamentare il mercato, affinché tutti possano usufruire dell’oro nero a seconda di disponibilità economiche e necessità produttive. Del resto una borsa controllata da istituzioni politiche poco trasparenti è difficile che possa essere garanzia di equità ed efficienza. Bisogna tornare a valorizzare le piazze di trattazione delle merci alla stregua di quelle dei titoli azionari. Eventualmente ricorrendo alle tecnologie più avanzate. Intelligenza artificiale e blockchain possono formulare previsioni su quali saranno i mercati più convenienti dove investire e su quali commodity puntare. Questo A) per difendersi dalle speculazioni; B) per contenere le ambizioni di egemonia di un cartello o di un singolo Paese produttore.

Simulazioni, si diceva. Ma forse neanche così tanto irrealistiche.

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