Global Britain: cosa resta?L'IDEA DI LUCA BELLARDINI

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La fine della sua esperienza al numero 10 di Downing Street pone una questione di fondo: cosa resterà delle idee e delle misure di policy con cui, a prescindere da tutto, Boris Johnson ha plasmato il posizionamento internazionale del Regno Unito di oggi? 

Nel giudicare il premier dimissionario, è inevitabile pensare che egli è stato non solo il principale fautore della Brexit ma, soprattutto, il capo di governo che più di tutti si sia impegnato per una vigorosa risposta occidentale all’aggressione russa contro l’Ucraina, nonché — più in generale — per un mondo libero che non pieghi il capo davanti allo zelo con cui le autocrazie perseguono la loro agenda.

BOJO LO STATALISTA 

In tale ottica, la premiership di Johnson apparirebbe quasi schiacciata sulle vicende internazionali, con poco spazio per le questioni interne: non va dimenticato, però, un indirizzo di politica economica decisamente statalista, intrapreso in parte per opportunità politica — rafforzare il consenso nel nord dell’Inghilterra, il cui «Red Wall» era stato abbattuto con le elezioni del 2019 — e in parte per “isterèsi” dopo il lockdown e le misure di contenimento del virus. Né si può evitare di considerare l’approccio britannico alla stessa pandemia: il minimo indispensabile in termini di restrizioni, quasi completamente abolite non appena la situazione lo consentisse; ma, allo stesso tempo, una poderosa campagna vaccinale fondata su cospicui finanziamenti pubblici alla più grande multinazionale farmaceutica domiciliata nel Regno, AstraZeneca, affinché — in joint venture con una delle più importanti istituzioni scientifiche del Paese, l’Università di Oxford — sviluppasse e facesse approvare il suo prodotto in tempi record. Il vantaggio competitivo sarebbe stato notevole, se soltanto la somministrazione non avesse subito una serie di “stop-and-go” a causa di una frequenza imprevista di effetti collaterali. 

Come per la Brexit, d’altronde, anche le politiche anti-Covid del governo Johnson riflettono l’approccio che egli intendeva dare all’economia britannica. In occasione dell’ascesa al potere, qualcuno aveva parlato di «boosterism»: un neologismo che indicava l’esuberanza personale, il decisionismo amministrativo, l’ottimismo che il nuovo premier sembrava infondere nel partito e nella società dopo il triennio grigio e accidentato di Theresa May, vittima degli “opposti estremismi” in materia di relazioni con l’Ue. 

IL “MONDO NUOVO” POST BREXIT

Veniamo così alla formalizzazione del divorzio da Bruxelles: per Johnson, indubbiamente, un capolavoro politico. Ma il tema non è quanto egli ne abbia giovato in termini di consenso, né è semplice capire se ciascuna delle due parti ne abbia tratto vantaggi o ne risulti danneggiata: la pandemia nel 2020-21 e la guerra in questo 2022 hanno prodotto spillover economici di tale portata che qualsiasi dato risulta irrimediabilmente “sporcato” da shock esogeni. Il vero tema, dunque, è capire se e come sia cambiata la postura internazionale del Paese. 

Come sappiamo, il fronte del «Leave» al referendum del 23 giugno 2016 — come pure nei successivi sviluppi parlamentari — non era affatto omogeneo. Da una parte il populismo isolazionista, deciso a infliggere un colpo mortale all’«Europa delle banche», alle «élite globaliste» e altre creature mitologiche inventate da una propaganda di basso livello, purtroppo non del tutto scevra da influenze straniere. Dall’altra, invece, l’idea assai più convincente — cui aderiva lo stesso Johnson — di una «Global Britain» capace di riportare a Londra quella centralità nell’arena mondiale che — nonostante gli sforzi e i successi della Lady di Ferro — era andata smarrita alla fine dell’età vittoriana, in un’epoca in cui gli Stati Uniti si stavano affermando come nuova potenza dapprima industriale (con la «seconda rivoluzione» a base di trasporti ed elettricità), poi commerciale (grazie anche alla crescente finanziarizzazione), infine militare (tra il conflitto con la Spagna per il controllo di Cuba e l’intervento nella Grande Guerra).

GLOBAL BRITAIN, UNICA DIREZIONE

In un contesto multipolare come quello odierno, però, l’idea cosmopolita e liberoscambista di «Global Britain» non può coltivare illusioni egemoniche. Deve fare i conti, piuttosto, con le grosse differenze che permangono rispetto al passato: il Regno non deve più soggiacere alle decisioni assunte a Bruxelles, ma certo — essendo perfettamente inserito nelle istituzioni della «comunità internazionale» — non ha più l’autonomia normativa di un secolo fa; l’impero coloniale si è giustamente dissolto, lasciando spazio a un «Commonwealth of Nations» in cui Londra è soltanto «prima inter pares»; la sterlina continua a essere tra le valute più diffuse e affidabili, ma non più con le proporzioni di un tempo. L’unico chiaro vantaggio è forse rappresentato dalla maggiore stabilità del sistema di alleanze, ma da esso derivano importanti responsabilità. 

È credibile, dunque, il progetto dei «Brexiteer» come Boris Johnson, oggi incarnato prevalentemente dall’attuale ministro degli Esteri Liz Truss (in particolare, da questo suo importante discorso)? Se guardiamo a quanto fatto da Londra negli ultimi anni, la risposta dovrebbe essere affermativa. Pur con diversi punti deboli, l’accordo sottoscritto con l’Unione europea alla Vigilia di Natale del 2020 tiene in vita le ambizioni commerciali del Regno, a partire da quelle della City come hub finanziario mondiale. Numerosi trattati bilaterali sono già stati firmati con Paesi extra-Ue. Inoltre, l’impegno britannico nell’affrontare i più gravi problemi internazionali — dal cambiamento climatico alle minacce per la sicurezza globale — è stato spesso tangibile. 

Certo, non mancano le incertezze sul fronte interno: basti pensare al generalizzato aumento della pressione fiscale e ai cospicui investimenti infrastrutturali — cui si aggiunge la nazionalizzazione di una società di trasporto ferroviario, la Northern Rail — messi in campo senza curarsi dei rischi inflattivi, poi ampiamente materializzatisi. La “filosofia” dell’attuale Regno Unito non è chiara e univoca come negli anni di Thatcher o Blair: di costoro, d’altronde, Johnson non ha mai avuto né il coraggio politico, né la capacità di comprendere i problemi e studiarne le soluzioni, né tantomeno lo standing personale. Ma in ogni caso, dopo la Brexit, dall’obiettivo di una «Global Britain» non è possibile tornare indietro. Chiunque arriverà a Downing Street è bene che lo tenga a mente.

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