Il “Senza” nelle Etichette Fabbrica Illusioni nel CiboL'articolo di Pietro Paganini per La Stampa

Nei messaggi commerciali trionfa il «senza». Se un prodotto è «senza» allora fa bene alla salute. Chi lo ha detto? La confezione. È iniziata negli Usa, dove sono maestri di marketing, l’ossessione per il senza, e si è ormai diffusa in tutto il mondo occidentale. Senza zuccheri, senza sale, senza grassi, senza olio di palma, senza coloranti, senza carboidrati, senza glutine, senza e via così. Col «senza» ci impongono un’idea di salute che guida le nostre vite.
Immagini ed affermazioni evocative stimolano il nostro senso di benessere. Le imprese alimentari lo hanno capito attraverso le analisi comportamentali dei consumatori, e lo hanno messo immediatamente in pratica.

Le ragioni sono ovviamente commerciali. Non ci sarebbe nulla di male se non fosse che, con quel «senza», come dimostrano le ricerche più recenti, il consumatore si illude di migliorare il suo stato di salute. Sarebbe sufficiente leggere attentamente la tabella nutrizionale, che sta lì sulla confezione, per scoprire che quel «senza qualcosa» è stato sostituito con qualcos’altro» di cui sappiamo poco e che forse, non è detto sia così salutare come vorremmo. È una trappola delle imprese alla naturale ingenuità dei consumatori? No. Le imprese fanno il loro mestiere che è quello di fornirci prodotti più o meno buoni e di convincerci a consumarli. Per farlo al meglio studiano le nostre abitudini.

Noi però non siamo mai stati così ossessionati dal «senza». O lo siamo diventati improvvisamente o c’ è qualcosa che non torna. Non è che anche le imprese sono cadute in questa trappola? Dovrebbero essere meno ingenue di noi eppure la sensazione è che oggi siano a loro volta vittime del «senza». Se prendiamo l’ultimo «senza» in ordine cronologico, l’olio di palma, si ha l’impressione che la sua esclusione dagli alimenti non sia, fatte le opportune eccezioni, la conseguenza né di scelte di mercato né tantomeno di questioni medico scientifiche. È piuttosto il risultato di un’imposizione ideologica, quella salutista.

A differenza del passato, il salutismo contemporaneo è promosso da una moltitudine variegata di micro associazioni di attivisti ciascuna delle quali agisce autonomamente intorno e contro un particolare ingrediente. Nel suo insieme resta una minoranza che tuttavia sta riuscendo nell’intento di imporre una vera e propria agenda alimentare alla maggioranza dei cittadini.

Questo è reso possibile da tre fattori.

1) I «senzisti» si giovano più che mai della disinformazione emotiva, che prospera attraverso la diffusione di notizie false che attecchiscono in un contesto culturale di per sé allergico al metodo sperimentale e al confronto critico, e contestualmente propenso a confermare le proprie ansie ed aspettative.

2) La disinformazione trova terreno fertile nelle reti sociali (e questo si sapeva) ma, purtroppo, anche nei media tradizionali che hanno ormai perso la vocazione originaria di raccontare storie dopo averle verificate, o comunque di mettere a confronto opinioni diverse seguendo il metodo sperimentale. Preferiscono l’evocazione ideologica e il racconto un po’ cialtronesco che emoziona l’ audience.

3) L’industria si lascia travolgere da questa molteplicità di micro messaggi che i media hanno provveduto ad amplificare finendo per convincersi che l’esclusione di uno o più ingredienti sia la scelta migliore per i consumatori. Si rivela essere la peggiore.

Ci viene infatti preclusa la libertà di scegliere negandoci il diritto di conoscere, a favore di una verità preconfezionata scelta da altri nel nome del bene assoluto: la salute, ma l’idea di salute stabilita da altri, per di più una minoranza. È invece proprio la conoscenza che favorisce la libera scelta dei cittadini e quindi il mercato e la concorrenza. Non siamo noi che sceglieremo se consumare con o senza. Se così non fosse, se ci fosse solo il «senza», staremmo uccidendo la libertà di scelta del cittadino e quindi il mercato vero.

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