Italia 4.0, il Governo spinge ma restano i problemi di sempre: ecco qualiL'EDITORIALE DI GIACOMO BANDINI PER AGENDADIGITALE.EU

I voucher per i manager dell’innovazione e il credito d’imposta formazione 4.0 non sono misure campate in aria: hanno una logica e va dato atto al Ministero di aver intuito le problematiche principali del sistema produttivo italiano. Ma permangono dubbi e nodi da sciogliere, soprattutto in fatto di skill. Ecco quali per un Italia 4.0

Tra le principali problematiche che l’Italia sta affrontando nel suo sentiero verso la trasformazione digitale e il passaggio all’Industria 4.0 ci sono la carenza di managerializzazione dei processi (e di manager adeguatamente formati e consapevoli) e di competenze digitali o comunque richieste dalla nuova automatizzazione industriale.

Tra le misure pensate da questo governo per risolverle, le più mirate dovrebbero essere i voucher per i manager dell’innovazione e il credito d’imposta formazione 4.0.

Entrambe hanno una logica alle spalle. Ma basteranno?

L’obiettivo che si prefigge il voucher è quello di intervenire sulle strategie aziendali, soprattutto per le PMI che sono ancora in difficoltà nella fase di transizione. Come funziona? Il contributo viene erogato in forma di voucher concedibile in regime “de minimis” e copre un massimo del 50% dei costi sostenuti per le prestazioni di un manager dell’innovazione regolarmente iscritto all’albo pubblico costituito presso il Ministero per lo Sviluppo Economico oppure indicato da una società registrata presso il medesimo elenco. L’entità percentuale del contributo varia a seconda della tipologia di soggetto richiedente e vede più agevolate le micro e piccole imprese e le reti di imprese per cui il tetto complessivo è di 80 mila euro. Al Ministero spetta ovviamente anche il controllo sulla rendicontazione e l’adeguato utilizzo del sostegno economico.

La prima versione implementata prevedeva una dotazione finanziaria di 50 milioni di euro. Rivelatasi insufficiente a coprire le domande presentate è stata aumentata di ulteriori 46 milioni di euro. I manager dovrebbero agire direttamente sull’organizzazione aziendale e fornire una consulenza specializzata sugli investimenti e le strategie di innovazione, anche per quanto riguarda il reperimento di capitali da investitori specializzati nel private equity o nel venture capital. Insomma, finanza alternativa rispetto ai canali tradizionali.

Per quanto riguarda il credito d’imposta formazione 4.0 esso si applica al 40% delle spese dedicate al personale dipendente impegnato nelle attività di formazione delle competenze digitali, “limitatamente al costo aziendale riferito alle ore o alle giornate di formazione, sostenute nel periodo d’imposta agevolabile e nel limite massimo di 300.000 euro per ciascun beneficiario, pattuite attraverso contratti collettivi aziendali o territoriali”.

Entrambe le misure, è necessario ammetterlo, hanno una logica alle spalle. Anche perché, finalmente, vanno a sostituire l’iper-ammortamento che aveva sì portato benefici, ma aveva anche esaurito il proprio scopo. Ossia incentivare gli investimenti fissi rimasti al palo da anni e pesantemente colpiti dalla recessione economica del 2007-2008. Sia il voucher che il credito formazione 4.0 cercano di ottenere risultati sul piano organizzativo e delle competenze. Va dato, dunque, merito al Ministero di aver intuito le problematiche principali del sistema produttivo italiano.

Tuttavia, permangono dubbi e nodi da sciogliere. Ai manager dell’innovazione viene giustamente concesso ampio spazio di manovra e, trattandosi di innovazione, questo non è necessariamente un male. Rimane, però, il classico dilemma della misura ad hoc. È possibile cambiare il sistema di produzione con la semplice immissione di un manager dell’innovazione? Qual è la reale capacità delle PMI italiane di assorbire a lungo termine i cambiamenti e le traiettorie immesse da un temporary/fractional manager?

Se non esiste un ecosistema in grado di inserirle in un circuito dove viene prodotta stabilmente innovazione e dove vi è uno scambio con i centri più rilevanti di ricerca e sviluppo tecnologico (università, centri di ricerca, multinazionali) il processo di trasformazione potrebbe non risultare efficace. La competitività a livello internazionale non verrebbe sufficientemente stimolata né migliorata. Inoltre, vi è il rischio che finite le misure di sostegno, le aziende con minore capacità di investimento non proseguano le strategie impostate dal singolo manager. Anche se quest’ultimo si rivelasse un abile guida e un eccezionale organizzatore di processo.

Il Credito di imposta formazione 4.0 è un po’ più specifico. Incentivare la creazione e la diffusione di nuove competenze è sempre un bene ai fini dello sviluppo tecnologico e della crescita della produttività. La questione delle skill digitali e 4.0 è profondamente complessa.

Non a caso, anche nel recente report del Word Economic Forum (WEF) le parole chiave e tra le più citate nei capitoli dedicati alle competenze e alla trasformazione digitale del report sono robotization, skill instability, reskilling e skill gaps.

Innanzitutto, citando il WEF, il fenomeno della skill instability agisce sempre più nel breve termine. Con l’avanzare delle tecnologie all’ultima (o penultima) frontiera le competenze richieste subiscono a loro volta trasformazioni repentine. E persino la sonnecchiante e “pesante” macchina politica dell’Unione europea si è accorta della necessità di colmare il fosso tra l’Europa e i suoi competitor e all’interno dei propri confini. Il Digital Education Action Plan dovrebbe assolvere proprio a questo.

Infatti, solamente il 58% delle professioni nel 2022 richiederà le stesse skill ritenute oggi necessarie. Ciò comporta anche un’esigenza di recuperare i lavoratori rimasti indietro crescente nel tempo (reskilling). Non si tratta più, quindi, di agire con una misura normativa, ma di sopperire alla mancanza di connessioni tra l’universo dell’istruzione e della formazione e le esigenze di un mercato in evoluzione incrementale. Il sistema d’innovazione italiano deve recuperare in questa direzione, creando le condizioni alla base. Cina, USA, Germania, Corea del Sud e Paesi Scandinavi hanno preparato per anni il terreno su cui effettuare la trasformazione dei processi produttivi. L’Italia è rimasta ferma. Una singola misura non può fare la differenza.

Una piccola chiosa finale. Le strategie per la trasformazione digitale e il passaggio al 4.0 hanno avuto in pochi anni nomi diversi: Piano Industria 4.0, Piano Impresa 4.0 e, recentemente, Transizione 4.0. Parafrasando Indro Montanelli, quando un Ministro degli Interni della Seconda Repubblica voleva dare l’impressione di un cambiamento – nel sistema dei servizi segreti – cambiava il nome dell’ufficio (SIFAR, SISDE, SISMI etc.). Puntualmente, tutto restava come prima. Non vorrei che oggi tale prassi venisse applicata anche all’Industria 4.0. Sarebbe l’ennesima prova di inadeguatezza della nostra classe politica.

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