L’economia insegnata a scuola, dovere di tutti gli educatoriL'IDEA DI LUCA BELLARDINI

Nei giorni scorsi si è sviluppato un certo dibattito intorno all’idea di ricomprendere l’«educazione finanziaria» nei programmi della scuola dell’obbligo. Per quanto l’espressione sia in realtà un anglicismo non troppo felice («education» significa più propriamente «formazione»), alcuni intellettuali hanno eretto barricate contro l’idea che le nozioni più tradizionali possano essere affiancate da quella che evidentemente percepiscono come un’«americanata» o comunque una genuflessione al mondo anglosassone. La ragione è evidente: costoro, al di là dei proclami, ancora considerano il capitalismo come un male. Al contrario, chiunque ami la libertà e sia aperto al nuovo dovrebbe accogliere l’idea con estremo favore. Vediamo perché, e soprattutto come. 

«ALFABETIZZAZIONE» E «FORMAZIONE»      

La semplice «alfabetizzazione» («financial literacy») viene comunque accolta con sospetto, ma non dovrebbe essere messa in discussione: i ragazzi di oggi un giorno diverranno adulti, ché neppure le battaglie di retroguardia possono fermare il tempo. Dovranno perciò capire come risparmiare, come rapportarsi con gli intermediari nella vita quotidiana, come investire; in breve: come soddisfare le esigenze di consumo future. Se non vogliamo che l’Italia resti al palo non solo delle classifiche in materia, ma anche e soprattutto di quelle sulla crescita, allora non c’è alternativa: si ritagli anche solo un’ora alla settimana — nei programmi scolastici di tutti gli indirizzi, non solo quelli di matrice economica e giuridica — per spiegare concetti-base come inflazione, diversificazione di portafoglio, relazione tra rischio e rendimento e così via. Insomma, le classiche domande di «conoscenza» nel questionario Mifid che la nostra banca prima o poi ci sottoporrà. 

Se parliamo della più ampia «formazione», invece, dovrebbe esserci molto di più. Nonostante lo strepito dei salotti rétro, consisterebbe nel tentativo di incorporare lo studio dei processi economici nelle ordinarie materie di scuola. Per alcune è relativamente semplice: né la storia economica né la matematica finanziaria sono sottocategorie inferiori delle discipline cui afferiscono, ma appunto ne fanno parte a pieno titolo. In apparenza più complicato è inserire la «financial education» nelle varie letterature, ma certo la sfida è ancora più avvincente.

L’ECONOMIA FRA I BANCHI DI SCUOLA …       

Quanto sarebbe bello spiegare ai ragazzi del biennio delle superiori, ancora abituati — per fortuna! — a leggere «I promessi sposi», tutta la ricchezza di contenuti economici dell’opera? (Il regista Antonioni, per dire, vi dedicò la sua tesi di laurea in Lettere). Senza voler andare avanti sino all’epoca industriale (Dickens e compagnia, di cui l’età vittoriana ribolle), quanto sarebbe affascinante scandagliare la cultura economica sottostante al «Faust» di Goethe, sulla politica monetaria in generale, o al «Robinson Crusoe» di Defoe, sul paradigma dell’«homo oeconomicus», o del moderno «self-made man»? 

Quanto sarebbe ancora più interessante approfondire le idee di Shelley, che Marx voleva proto-comunista ma in realtà ammoniva — come farà poi la scuola austriaca — contro il declino della moneta metallica e l’ampliamento della circolazione fiduciaria? Allo stesso modo, quanto sono importanti i molteplici riferimenti al commercio internazionale in alcune poesie di Keats, al culmine di un’epoca in cui il «Grand Tour» era contemplato ben prima che l’Unione europea lanciasse i suoi programmi di «scambio»? 

… E NELLA STORIA DELLE NOSTRE CITTÀ     

D’altronde, non bisogna andare troppo lontano. Forse è noto che Lombard Street — celebre via della City londinese — si chiama così per l’origine di molti “finanzieri” di un tempo, quello in cui l’economia cosiddetta «reale» dei mercanti e l’attività dei «banchi» erano (già) intimamente connesse. Così come la Lombardia dell’epoca si estendeva in realtà fino al Piemonte, dove prosperavano i lanaioli astigiani. Ma allora perché non guardare innanzitutto alle nostre città? A raccontare l’economia pre-industriale non sono soltanto Milano, Genova, Firenze; ma, per esempio, anche le due bellissime città — Bergamo e Brescia — che nel 2023 sono capitali della cultura: a dimostrazione che anche la cosiddetta «provincia» trasuda di storia economica (oltre che di archeologia industriale, impronta di un passato glorioso ma troppo lontano dagli standard produttivi moderni).

IL PENSIERO ECONOMICO È UMANISTA 

Insomma, l’«educazione finanziaria» non è di serie B. Non disumanizza gli studenti; non li avvicina ai robot. Li rende forse più umani, perché è difficile pensare agli individui — dunque ai loro «sentimenti morali», per dirla con Adam Smith — senza la dimensione dell’agire economico (calcolo incluso). Senza i mercati cui affluivano contadini e allevatori non esisterebbero i mercati finanziari; senza questi ultimi, oggi, forse non esisterebbero più l’agricoltura né la zootecnia (o sarebbero molto diverse da come le conosciamo). Coraggio, cari intellettuali che magari sostenete l’obbrobrio della «cancel culture» ma rifiutate che ai giovani si parli di finanza, pubblica o privata che sia: la scuola non è il vostro feudo politico, ma strumento di preparazione alla vita adulta. Se non comprendessimo le «origini della ricchezza delle nazioni», saremmo tutti più poveri. E resteremmo tutti bambini.

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