Produttività, Ricerca e Investimenti: la Via Maestra dell’IstatL'IDEA DI GIACOMO BANDINI

Anche l’Istat certifica la necessità per le imprese di investire nelle tecnologie digitali per resistere alle crisi e continuare a crescere. È necessario però costruire un sistema strutturalmente solido, basato sulla cooperazione pubblico-privata. L’articolo è pubblicato anche su agendadigitale.eu.

La presentazione del Rapporto Annuale 2021 – La Situazione del Paese elaborato dall’Istat offre diversi spunti di analisi per quanto riguarda il presente della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica in Italia. Vengono individuati alcuni dei fattori che frenano la crescita della produttività e della competitività, soprattutto a livello internazionale, tra cui proprio il gap che le nostre aziende scontano in termini di digitalizzazione dei processi. Inoltre, la grande conferma: chi è più digitale, meglio riesce a resistere alle crisi economiche. Il 96% delle imprese digitalmente mature non ha subito o programmato ridimensionamenti delle proprie attività durante la pandemia e i lockdown. Questo deve essere un segnale per il futuro e anche per le politiche che il governo dovrà portare avanti con i fondi europei.

I TREND DEL DIGITALE RILEVATI DALL’ISTAT

Nell’ultima decade il tema delle tecnologie digitali ha occupato il dibattito pubblico, dove si è più volte sottolineata l’importanza di colmare il gap che le imprese italiane scontano con i competitor internazionali. Ma è proprio nell’anno della Covid-19 che è emerso il loro ruolo fondamentale nell’assicurare la prosecuzione delle attività produttive e il mantenimento dei livelli essenziali dei servizi pubblici. Quali sono i trend emergenti?

La misurazione della digitalizzazione da parte dell’Istat avviene principalmente attraverso tre parametri: livelli di formazione ICT all’interno delle imprese, diffusione delle principali tecnologie, e utilizzo dell’e-commerce. Per quanto riguarda la prima voce si conferma quanto l’indice DESI continua a illustrare da tempo a questa parte. Le competenze digitali non sono il punto di forza del tessuto produttivo italiano e su questo aspetto gli effetti dei vari piani strategici (tra cui Industria 4.0) non sembrano ancora essersi palesati nella misura prospettata. Un nuovo problema è però sorto durante il lockdown. È crollata l’incidenza di imprese che ha svolto formazione ICT (pari al 15 per cento in Italia e al 20 per cento nell’Ue), con un forte calo rispetto all’anno precedente dove la quota aveva superato i 18 punti percentuali raggiungendo i massimi dall’inizio delle rilevazioni di questo parametro. Le conseguenze potrebbero essere piuttosto significative per un paese come l’Italia che già si trovava in posizione di svantaggio e in cui il lavoro qualificato ICT non primeggia rispetto alle altre tipologie.

Analizzando la diffusione delle tecnologie i numeri sono disomogenei tra di loro, ma migliorano il posizionamento italiano. Addirittura vi sono notizie positive per quanto riguarda alcune singole applicazioni digitali. Ad esempio il cloud, di primaria importanza durante i vari lockdown e la conseguente riorganizzazione del lavoro da remoto, è stato utilizzato da circa il 60% delle aziende nell’anno 2020 con una crescita del 36% rispetto al 2018. Allo stesso modo si segnala una crescita significativa nell’installazione di robot e nel ricorso all’Intelligenza Artificiale rispetto alle principali economie manifatturiere dell’Unione Europea. Meno impiegati i Big Data, i software di gestione aziendale e il commercio elettronico.

CHI PIÙ DIGITALIZZA, PIÙ RESISTE

L’istituto, però, non si limita a fornire un quadro statico del livello di digitalizzazione delle imprese. La disamina effettuata è forse l’elemento più significativo e aiuta a comprendere perché una maggiore adozione tecnologica è fondamentale per incrementare la produttività e costruire un’economia resiliente agli shock. I dati mostrano, infatti, che le imprese con maggiori capacità tecnologiche, nonostante le prospettive ancora incerte per quanto riguarda la crisi, stanno pianificando un incremento dei processi di digitalizzazione. Inoltre sono orientate a implementare modelli organizzativi 4.0 e a stabilire partnership in questo senso con altri soggetti esterni.

SULLE COMPETENZE DIGITALI DOBBIAMO MIGLIORARE

Il Rapporto Annuale 2021 dell’Istat fornisce ottimi spunti di riflessione per le politiche pubbliche del futuro prossimo. Innanzitutto conferma che i vari piani per l’Industria 4.0, oggi Transizione 4.0, hanno avuto effetti positivi per quanto riguarda l’implementazione di nuove soluzioni tecnologiche e l’installazione di nuovi macchinari. Tuttavia hanno avuto un impatto limitato per quanto riguarda le competenze digitali. Questo in virtù anche del sotto-dimensionamento delle imprese italiane e di una propensione minore agli investimenti nella formazione continua del personale. Questo comporta una doppia dinamica: limitazione nel pieno utilizzo delle tecnologie a disposizione e ricorso a forme esterne di consulenza o impiego. Correggere questo aspetto negativo è possibile e richiede in questa fase storica di rendere complementari le azioni politiche.

Da una parte il piano Transizione 4.0 cerca di agire con un credito d’imposta ad hoc. Dall’altra, il PNRR prevede investimenti in tale direzione per un totale di 1,6 miliardi, di cui 1,1 dedicati alle materie STEM. Tutto fa brodo ovviamente. La sensazione è, però, che il cambiamento debba avvenire in modo strutturale e coinvolgere non solamente le imprese, ma tutto il sistema dell’educazione nonché delle connessioni tra l’universo privato e pubblico affinché il travaso di competenze sia diretto e continuo.

INVESTIRE SU RICERCA, PARTNERSHIP E TRASFERIMENTO TECNOLOGICO

Un’altra riflessione dal questo quadro finale disegnato dalle rilevazioni Istat per l’anno 2020. Il divario tra imprese non è più solamente settoriale o geografico. Per comprendere le criticità e anticipare eventuali situazioni critiche, come quella attualmente in corso, è necessario più che mai intervenire sui livelli di innovazione e adozione tecnologica e digitale. Non si tratta solamente di migliorare i parametri economici e di tendere ad uno sviluppo progressivo, bensì di costruire un tessuto in grado di resistere nel miglior modo possibile alle oscillazioni periodiche e di garantire livelli essenziali di produzione, servizi senza stravolgere i suoi assetti organizzativi di base. La strada indicata dallo stesso Rapporto va in quella direzione e indica il PNRR come pacchetto di politiche su cui impostare un percorso fatto di produttività, ricerca e investimenti.

Proprio quei tre fattori che sono venuti a mancare da tempo e senza i quali sono emerse tutte le debolezze del sistema italiano. E l’impegno per garantire un recupero incentrato sull’innovazione tecnologico dovrà venire non solo dagli investimenti pubblici, fondamentali, ma anche dal privato e dalla sua capacità di integrare e far fruttare gli stimoli che – si spera – deriveranno dai fondi europei. Uno strumento fondamentale, indicato proprio dall’Unione Europea, può essere quello delle partnership-pubblico private. Esse hanno il potenziale di essere funzionali ai fondi europei e agli investimenti pubblici, di facilitare policy di technology transfer e di allocare in modo strategico le risorse. Anche in questo caso non è sufficiente prevedere lo strumento nelle varie strategie di investimento. Diventa fondamentale affrontare i nodi che le rendono a volte depotenziate in modo che l’attuazione del PNRR attraverso questo strumento sia efficace al massimo. Quindi, semplificare i processi del Codice dei Contratti e rafforzare il personale nelle PA dedicato a queste forme di cooperazione con il privato.

Il PNRR non può essere la soluzione di tutti i mali. Il cambiamento deve coinvolgere tutti i settori e le procedure. Altrimenti rischia di essere un percorso interrotto a metà e l’Italia di rimanere in un circolo vizioso di ritardi e mancate opportunità.

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