Zero Burocrazia per Rilanciare il PaeseL'Idea di Competere

Di tanto in tanto si torna a parlare di Zes (Zone economiche speciali) da localizzare soprattutto nel Sud Italia, come della soluzione regina per attrarre investimenti esteri e stimolare le prospettive di crescita in zone in cui la difficoltà di fare impresa rimane un freno pesantissimo.

Ciò che rende “speciali” queste zone è il business enviornment, caratterizzato da una serie di agevolazioni fiscali e commerciali e da un contesto infrastrutturale funzionale in grado di ridurre i costi di transizione. Tuttavia, la creazione di una Zes non appare particolare semplice né scontata, e soprattutto non elimina il problema di fare impresa in Italia, ossia la burocrazia asfissiante.

Tanto per cominciare la Zes deve essere istituita attraverso una legge nazionale che disciplini le modalità di costituzione della zona stessa e la tipologia delle attività ammesse e non. Nel rispetto del principio di competenza, poi, si dovrà demandare alla Regione interessata il compito di definire il perimetro della Zes e di gestire i rapporti con gli amministratori delle aree coinvolte. A concludere un quadro già parecchio intricato, la concreta e quotidiana gestione della Zes sarà poi affidata ad una società pubblica o con capitale misto. Non stupisce se i casi di fallimento delle Zes e delle Zfu (Zone franche urbane) siano moltissimi: si propongono solo incentivi fiscali mentre non si intacca il carrozzone burocratico che tiene in ostaggio la crescita dell’intero Paese.

A livello mondiale esistono circa 2700 Zes, localizzate soprattutto in Cina, mentre in Europa attualmente ne sono presenti più di 70, 14 delle quali solo in Polonia. Ed è proprio quello polacco l’esempio decantato dai fautori delle Zone economiche speciali tout-court. È vero, la creazione delle Zes in Polonia ha avuto effetti estremamente postivi sul fronte occupazionale e degli investimenti esteri, ma rimane un caso da contestualizzare all’interno delle generali ottime performance macroeconomiche che ha interessato l’intera nazione negli ultimi 25 anni.

Un caso, quello polacco, difficilmente sovrapponibile al Mezzogiorno italiano, dove la debolezza socio-istituzionale combinata ad agevolazioni o esenzioni fiscali e deroghe alla regolamentazione sui contratti del lavoro, finirebbe con il “drogare” nel breve periodo il fronte occupazionale ed economico, totalmente assuefatto alla specialità delle attività ammesse nel territorio. Una volta interrotto il programma bisognerà fare i conti con il ridimensionamento del vantaggio competitivo.

L’alta tassazione non è il motivo principale per cui si fatica a fare impresa in Italia, anzi, gli imprenditori sarebbero disposti anche ad affrontare tassazioni esose se accompagnate ad una burocrazia leggera ed efficiente. Gli esempi virtuosi in un contesto di free zone, come Dubai, Honk Kong, Shenzen e Singapore hanno seguito questa logica: una burocrazia ridotta all’osso accompagnata da una riduzione della pressione fiscale, ha attirato investitori da ogni parte del mondo.

Il fatto è che le Zes hanno successo solo quando provocano trasformazioni strutturali nelle economie interessate, altrimenti si rischia di accentuare distorsioni già esistenti. Per queste ragioni occorre puntare sulle Free Zone, aree specificamente destinate alla promozione del commercio, all’esportazione ed all’apertura dell’economia locale. L’idea alla base della creazione delle Free Zone punta a facilitare gli investimenti: di conseguenza le procedure per insediarsi nelle zone franche sono relativamente semplici, veloci, relativamente economiche e libere da qualsiasi nodo burocratico.

In Italia il vero ostacolo alla crescita è la burocrazia, solo se snellita ha senso parlare di Zes per rilanciare il Mezzogiorno.

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