Elettrico: sfida accettata?L'IDEA DI ANTONIO PICASSO

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All’ok dell’Europa per lo stop ai motori a combustione entro il 2035, politica e forze sociali hanno reagito in disordine. Ha senso però mettersi di traverso a una tendenza che è già realtà? Nel Dna dell’imprenditore c’è la capacità di approfittare delle sfide. Sarebbe più opportuno quindi fare nostra la transizione per continuare a essere competitivi come filiera italiana dell’auto nel mondo.

C’ERA UNA VOLTA UN CAVALLO

Nel 1830, un tizio di Baltimora, Peter Cooper, fa correre la sua locomotiva in una gara di velocità contro una carrozza ferroviaria trainata dai cavalli. Secondo voi come finisce? Sbagliato! Vincono i cavalli. Tuttavia, l’entusiasmo della folla per il mostro a vapore, che perde solo perché gli è saltata la cinghia di trasmissione, fa di Cooper il vincitore morale della competizione, il che lo spinge a scommettere nel nascente settore delle ferrovie made in Usa. 

Romanzata o meno, la storia torna utile per capire l’ok del Parlamento Ue al piano di transizione ecologica, che prevede lo stop ai motori a combustione entro il 2035. Come duecento anni fa, c’è una disconnessione tra sogno e realtà. Nonostante sia più cara, lenta e complessa nella manutenzione, l’E-car è già su strada. Lo stesso accadeva per la locomotiva due secoli fa: sconfitta dai cavalli, era palese che avesse il futuro in mano. 

A prima vista, le istituzioni di Bruxelles hanno agito in quest’ottica. E hanno fatto pure bene. Il mercato ci dice dove andare, noi gli diamo delle regole. L’impulsività, però, è lecita nella folla, ma vietata nelle scelte politiche. L’Europa infatti non ha dato il via libera all’auto elettrica sicura di avere in tasca un piano di riconversione industriale. La sua è stata una mossa a carte coperte

DA QUI IL CAOS

Politica e forze sociali, almeno in Italia, si sparpagliano nel più classico dei todos caballeros. Il centrodestra si lascia andare al luogo comune. Spolvera decotti slogan anti-Ue, senza però fornire un’alternativa, un Piano B sostenibile, nel senso industriale e ambientale del termine. Il centrosinistra dimentica di essere di sinistra, e con una pennellata di verde fa finta di non vedere i potenziali sconquassi al mercato del lavoro che l’E-car potrebbe arrecare. I sindacati minacciano lo sciopero per contrastare il rischio disoccupazione di un settore che è sempre più automatizzato. Le imprese pretendono che il governo le aiuti con sussidi e defiscalizzazioni, quasi ad ammettere che è meglio difendere lo status quo piuttosto che investire e quindi anticipare il futuro.

NON SI TORNA INDIETRO 

C’è un’alternativa a tutto questo? Un tempo, in casi simili, i soggetti coinvolti si sedevano intorno a un tavolo e si trattava su cosa si fosse disposti a cedere e su quale altro obiettivo fosse necessario lavorare insieme. Oggi il concetto di politica industriale non sa andare oltre a un hashtag.

Dall’auto elettrica non si torna indietro. Questo è il punto di partenza. Lo dicono le nuove generazioni, che sono i consumatori e gli elettori di domani, in parte già odierni, per nulla disposti a recedere sulla loro necessità di spostarsi – tanto, velocemente e comodi – senza però impattare sul pianeta. Andare contro questa tendenza è del tutto inutile. Chi fa marketing dice che non è il produttore a imporre la propria Weltanschauung, ma è chi compra a comandare

Partendo da qui, le misure che molti ipotizzano non sembrano nemmeno così velleitarie. Se le imprese avessero il coraggio di uscire dalla loro Soglia di Gorizia, in attesa di essere travolte dalla concorrenza cinese – ma anche abbandonate dai clienti tedeschi, visto che, prima o poi, l’automotive d’oltralpe si rivolgerà altrove per la componentistica – si accorgerebbero che investire in tecnologia, capitale umano e nell’avvio di nuove linee di fornitura di materie prime (nichel, litio e alluminio in primis) è faticoso sì, ma anche coraggioso e pionieristico. Se i sindacati si accorgessero che ha più senso promuovere la formazione delle nuove leve, piuttosto che difendere i diritti acquisiti, vivrebbero una nuova giovinezza, come soggetto intermedio e di rappresentanza per una generazione che, pur formata, non riesce a farsi spazio sul mercato del lavoro. Se infine la politica abbandonasse i calcoli elettorali – peraltro spesso cannati – ma si concentrasse su un piano infrastrutturale fatto di mix energetico, revisione (e liberalizzazione) del sistema dei trasporti, fino all’installazione di colonnine e altri device utili per la mobilità del domani, il Paese non avrebbe nulla di che temere. Piani smart city, strategie di lungo termine e progetti di automazione – con connessa valorizzazione delle competenze – in Italia però restano o casi isolati, per quanto di successo, oppure slogan con un buon impatto sui social, ma deboli nella sostanza. L’esperienza di Peter Cooper, invece, dovrebbe insegnarci a guardare oltre il risultato apparente. La locomotiva perse il primo round di una gara poi vinta su tutta la linea. Siamo capaci di fare altrettanto?

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