[ITA] La geopolitica dell’etichettatura alimentare e il rischio di nuovi fronti interni all’Ue DI BENEDETTA ANNICCHIARICO E ANTONIO PICASSO

Il dibattito sull’etichettatura degli alimenti, per fornire al consumatore un’adeguata informazione di ciò che acquista, e di conseguenza mangia, si è concentrato finora sulle questioni tecnico-scientifiche. Il Nutriscore, con il suo algoritmo, soddisfa l’obiettivo che l’Unione Europea si è prefissata con la strategia del Farm to Fork? Il Nutrinform Battery è una valida alternativa? In maniera ancora più ampia: è sufficiente etichettare gli alimenti per fornire al consumatore A) gli strumenti per una corretta educazione alimentare; B) le indicazioni per procedere, comunque, liberamente nelle scelte della propria tavola? Da qualunque parte lo si osservi, il dibattito sul tema è ancora aperto.

RISIKO A TAVOLA

La questione, tuttavia, sta acquisendo un peso sempre più politico a scapito delle riflessioni sul valore scientifico e sociale delle varie proposte di etichettatura comunitaria. Dire che il Nutriscore è un’iniziativa squisitamente francese, così come fare dell’Italia l’alfiere del Nutrinform – entrambe le affermazioni sono esatte – vuol dire focalizzarsi soltanto su un punto che, poi, ampliando a grandangolo l’obiettivo si rivela essere un potenziale vero e proprio risiko politico interno all’Ue.

È ovvio infatti che entrambi i Paesi stiano lavorando per tirare acqua al proprio mulino, creando così una rete di alleanze con altri governi, sulla base di interessi condivisi e identità produttive similari. Per esempio, in economie dove l’agricoltura è ancora una componente significativa del Pil, al Nutriscore si preferisce il Nutrinform. È il caso di Romania, Lettonia e Grecia, dove il settore primario corrisponde rispettivamente al 4,10%, 3,72% e 3,65% del Pil (Fonte, Banca Mondiale 2019). Si tratta di realtà simili al panorama agricolo italiano, fatto di Pmi – per quanto nel loro complesso partecipino all’1,9% della ricchezza produttiva del nostro Paese – legittimamente preoccupate che l’etichettatura a semaforo rappresenti per loro una sorta di lettera scarlatta agli occhi del consumatore medio e quindi tagli la possibilità di presenziare, come invece possono fare ora, sugli scaffali della grande distribuzione organizzata di tutta Europa.

Questo ragionamento però non si adatta alle scelte di Ungheria e Portogallo – nazioni anch’esse dalla forte componente agricola – la cui posizione temporaneamente favorevole al Nutriscore appare dettata più dalla necessità di stare in scia con il partner commerciale di riferimento (Germania e Spagna) che in difesa dei propri produttori. In tal caso fa fede la strategia del pesce grande che comanda quello piccolo.

C’è poi una terza chiave di lettura. I Paesi esportatori di prodotti potenzialmente vittime del Nutriscore stanno, oppure hanno già preso posizione contraria. Ma nemmeno questo è un discorso da generalizzare. Tant’è che dell’Italia conosciamo la posizione ufficiale. Come anche della Grecia. Formaggi, olio d’oliva, miele e tanti altri alimenti non raffinati prodotti in questi mercati sono a rischio. E dato che l’agricoltura spagnola non è tanto diversa, anche Madrid sta tornando sui propri passi. Sul tema sarebbe da puntualizzare che la Francia non è da meno. Ma non è questo l’ambito per la polemica. La stessa Olanda, produttrice quanto anche hub globale di importazione di grassi saturi, avrebbe tutte le buone ragioni per riflettere sulle sue attuali posizioni.

CORSI E RICORSI STORICI

Cosa si deduce da questa rapida e forse parziale dislocazione di bandierine? Sembra di essere tornati all’Europa che fu. Ovvero quando non c’era. Quando, per questioni di religione, per le ambizioni di re e imperatori, oppure per il controllo di un territorio e per lo sfruttamento di una certa risorsa naturale, le tensioni degeneravano in conflitti. Non a caso, tra Italia e Francia, la dialettica Nutriscore vs Nutrinform sta assumendo il sapore dei sovranismi e anche una sorta di competizione tra chi cucina e mangia meglio. Questo è un rischio di cui a Bruxelles le istituzioni devono iniziare a essere consapevoli. Alla stregua del pro e contro euro, dibattito ormai archiviato, quello del Farm to Fork rappresenta un potenziale nuovo scontro politico interno all’Unione. Divisivo e quindi nocivo per tutti.

IL MODELLO MADE IN UE

La storia secolare del nostro continente insegna come casi analoghi siano stati risolti con soluzioni antitetiche. La Pace di Westfalia del 1648 chiuse oltre un secolo e mezzo di guerre di religione, con ogni sovrano – con annessi sudditi – libero di seguire la propria chiesa e di interpretare a suo modo le Scritture. Un accordo che però non pose fine alle guerre. Si dovettero aspettare infatti ben tre secoli – con milioni di morti, olocausti e devastazione di ogni sorta – per capire quanto fosse necessaria la condivisione di interessi, risorse e politiche. Prima il carbone e l’acciaio, poi il commercio, dopo ancora la moneta, adesso, sempre a seguito della pandemia, sembra che si siano fatti altri passi avanti in termini di solidarietà finanziaria. È questo il modello di azione “made in Eu”. Un modello vincente, nonostante tutto. E sarebbe un peccato abiurarlo su un terreno come la tavola da pranzo, dove la condivisione è un valore ancora più forte e concreto che in altri frangenti. 

 

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