Perché il sistema economico globale non è in pericolo, ma la globalizzazione sìL'IDEA DI LUCA BELLARDINI

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Molti pensano alla globalizzazione come a un fenomeno esclusivamente economico. Non sorprende, dunque, che abbiano iniziato a parlare della sua crisi con lo scoppio della pandemia di Covid-19, foriera di pesanti conseguenze sul sistema produttivo; o al più tardi con l’invasione russa dell’Ucraina, che ha inferto un colpo durissimo all’«ordine liberale internazionale» post Seconda guerra mondiale. Ci sia permesso di bollare questa visione come (ampiamente) riduttiva, forse legata a un’ideologia che la globalizzazione non l’ha mai accettata perché incapace di comprenderla.

LA CRISI DELLA GLOBALIZZAZIONE

Se davvero fosse un fenomeno puramente economico, sarebbe legittimo pensare che abbia iniziato a declinare solo negli ultimi trenta mesi: d’altronde, certo non mancano dei fondati motivi per sostenere questa visione. L’emergenza sanitaria ha avuto un impatto esiziale sulle catene del valore; e il commercio internazionale, che già mostrava segni di rallentamento sulla scia del ritorno delle idee protezioniste nei maggiori Paesi occidentali (a partire dagli Usa di Trump), ne ha evidentemente sofferto. Poi, quando sembrava che fossimo di nuovo avviati alla normalità, il Cremlino attuava una mossa che in Europa era mancata per ottant’anni, generando fin da subito una serie di nefaste conseguenze non solo dirette (catastrofe umanitaria ed economica, devastante per la vita di milioni di ucraini) ma anche indirette, con l’alterazione dei rapporti giuridici con soggetti russi (sanzioni occidentali e contro-sanzioni di Mosca, segnatamente rispetto ai flussi di idrocarburi e all’esportazione dei cereali ucraini) e l’impennata dei prezzi di numerose commodity, tanto agricole quanto energetiche e minerarie. L’evidenza di una crisi della globalizzazione, pertanto, sembra esserci tutta.

Tuttavia, non dobbiamo cedere alla tentazione del “recentismo”. La pandemia e la guerra sono certamente gli ultimi due «cavalieri dell’Apocalisse», il cui passaggio sta falcidiando le più importanti conquiste ― economiche, sociali, culturali: in una parola, civili ― dell’ultimo trentennio, seguite alla caduta del Muro di Berlino. Eppure, guardando appena un po’ più indietro, scopriremmo che sono purtroppo in ottima compagnia. È dalla crisi finanziaria del 2008, infatti, che l’Occidente sembra aver smesso di credere in sé stesso, dilaniato dai dubbi e soggiogato da una pericolosa narrazione contraria: quella di chi ha perduto la guerra fredda senza fare autocritica. A posteriori, possiamo farci venire il dubbio che non sia stato frutto della casualità della storia se un mese prima della dichiarazione d’insolvenza di Lehman Brothers le truppe russe attaccarono la Georgia con un pretesto molto simile a quello dello scorso febbraio per l’Ucraina.

LE RADICI DELLA GLOBALIZZAZIONE

D’altronde, se la globalizzazione è un fenomeno prevalentemente economico, nulla più della crisi finanziaria può simboleggiarne lo stallo. I tanti che la contrastano vedono il moderno capitalismo come il complemento dell’egemonia politica americana, rimpiangendo la superpotenza comunista e strizzando l’occhio a chiunque si proponga di ripeterne le orribili gesta. Costoro ignorano che il capitalismo, incluso quello delle banche e dei servizi d’investimento, ha radici ― se non tecnologiche, perlomeno culturali ― ben più profonde dell’ultimo trentennio. Di conseguenza, la globalizzazione non può essere un fenomeno “recente”: è, invece, il risultato del sedimentarsi di convinzioni teoriche e pratiche la cui origine va ricercata nella natura umana, non in un complotto plutocratico. Senza saperlo, erano alfieri della globalizzazione i mercanti medievali che spesso si muovevano (anche) da pellegrini, i «cambiavalute» rinascimentali ― molti dei quali fondarono veri e propri conglomerati finanziari su base transfrontaliera: basti pensare alle filiali del Banco de’ Medici a Venezia, Londra, Bruges e in tante altre città europee ― e i grandi navigatori nell’età della «rivoluzione scientifica». Analogamente, hanno contribuito al pensiero “globale” tanto gli umanisti à la Pico della Mirandola, che vedevano nell’individuo il centro di ogni cosa, quanto gli empiristi scozzesi e i philosophes illuministi che ne esaltavano i diritti naturali. Il progresso tecnologico, figlio di tutto questo, ha fatto il resto.

LA DE-GLOBALIZZAZIONE NON È AUSPICABILE 

In quest’ottica, la globalizzazione sta davvero finendo, ma non per le ragioni identificate dagli oppositori dell’ordine liberale. Guardando all’economia, potremmo ragionevolmente ritenere che la fase attuale sia solo temporanea: come ha osservato Alberto Mingardi sul Corriere della Sera (link), le caratteristiche dell’odierno sistema economico rendono molto improbabile che si “riavvolga il nastro” nel prossimo futuro. E, come sottolineato da Ferruccio De Bortoli alla presentazione milanese dell’ultima pregevole opera di Marco Magnani (Making the Global Economy Work for Everyone, Palgrave Macmillan: link), la de-globalizzazione mostra caratteristiche assai poco desiderabili per i più poveri, che finora hanno maggiormente beneficiato delle grandi trasformazioni capaci di creare ricchezza. 

Quello che dobbiamo temere, dunque, non è tanto la contrazione dei commerci, la variazione del mix energetico, il cambiamento urbanistico delle città sulla scia di fenomeni come la diffusione dello smart working o comunque la roboante avanzata del digitale, con tutti i suoi risvolti etici. Alcuni di questi fenomeni discendono da tendenze che dovremmo incoraggiare: per esempio, la transizione verso un sistema più sostenibile, pulito, inclusivo. Vanno dunque governati, ma ― proprio come la globalizzazione ― sono inevitabili. Sarebbe miope opporvisi, magari per difendere posizioni acquisite o tecniche produttive ormai superate. Allarmiamoci, piuttosto, per la frequenza crescente con cui vengono messi in discussione i capisaldi della civiltà democratica e liberale dell’Occidente (in senso politico, non meramente geografico). Se oggi cade la fiducia in quel modello, domani ― molto presto ― cadrà il modello stesso: e con esso, come ha detto Letizia Moratti parlando del libro di Magnani, quella rule of law internazionale che ha garantito la pace ma ora scricchiola. Cosa verrà al suo posto? Qualcosa di verosimilmente meno efficiente, meno “umano”, meno vantaggioso per chiunque sarà escluso dalla ristretta cerchia del potere. Davvero lo vogliamo?

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