Spreco alimentare e fameL'idea di Benedetta Annicchiarico

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Lo spreco alimentare è l’ultimo tassello della filiera della (in)sostenibilità alimentare. La distribuzione ineguale del cibo può essere corretta con pratiche innovative volte a rendere più competitivi i piccoli agricoltori. L’Italia si faccia capocordata di un grande progetto di cooperazione internazionale.

Sabato prossimo, 5 febbraio, sarà la Giornata nazionale di prevenzione allo spreco alimentare. Una piaga che in Italia equivale a mezzo chilo di cibo gettato nella spazzatura ogni settimana da ciascuno di noi. Meno spreconi degli americani o dei tedeschi, che ne buttano più di 1 chilo a testa, ma di certo non assolti da ogni peccato. Chi non si è sentito dire, dai nostri genitori, di “pensare ai bambini africani” quando ci rifiutavamo di finire la cena? Astuzie di pedagogia spiccia. Ma se la retorica ha un senso, in questo caso, è quello di farci riflettere su un tassello della (in)sostenibilità alimentare che ha due facce: da un lato ci siamo noi, che non sappiamo cosa fare di tutto il cibo che abbiamo e compriamo; dall’altro,un’ampia fetta di popolazione mondiale, più o meno 800 milioni di persone, non sa dove o come procurarsi i nutrienti di cui ha bisogno.

COSE DA TERZO MONDO

Eppure, si sa, il cibo non manca. Il mondo ne produce più che abbastanza per sfamare tutti e sette i miliardi di persone che ne hanno bisogno. Ce n’è già anche per sfamare quei tre miliardi in più che nasceranno da qui al 2050. In Occidente siamo talmente abituati all’imbarazzo della scelta nei nostri supermercati che l’immagine degli scaffali vuoti nei giorni del lockdown è rimasta impressa nella memoria di tutti noi. «Cose da terzo mondo», commentavamo. Appunto. 
Il paradosso è che, proprio quei mondi sperduti e arretrati dell’entroterra africano o indiano, popolati da bambini con la pancia gonfia – è da settant’anni che abbiamo in mente questa immagine, non è forse il caso di relegarla alla storia? – proprio quelle realtà, dicevamo, sono responsabili della produzione di un terzo di cibo consumato ogni anno a livello mondiale. Insomma, il cuore della malnutrizione è anche un asset della nutrizione mondiale.
 
È evidente che siamo di fronte a una distribuzione globale del cibo profondamente ineguale, dovuta a tanti e complessi fattori strutturali: dalla vulnerabilità dei raccolti a fenomeni di forza maggiore – guerre, e disastri naturali, pandemie – ma soprattutto tecniche di coltivazione medievali che non possono competere con produttori industriali, fino a pratiche di food dumping per cui agli abitanti di Lomé, in Togo, conviene comprare la carne europea pesantemente sovvenzionata piuttosto che quella locale, escludendo così dal mercato gli allevatori del Sahel. 
Tanto complesso è il problema quanto lo è la soluzione. L’istinto buonista propenderebbe a donare tonnellate di cibo mai consumato in Europa alle comunità più povere, sotto forma di aiuti umanitari. Dimenticando così la massima per cui è meglio insegnare a un uomo a pescare, piuttosto che ingozzarlo di trote. E a proposito di sostenibilità, navi e aerei attrezzati per trasportare derrate alimentari sono tra i mezzi più inquinanti del pianeta. Aumentarne l’uso nel pieno della transizione ecologica globale potrebbe essere complicato da spiegare a Greta Thunberg.

EMPOWERING PRODUCERS  

Sono i produttori infatti quelli da mettere al centro. Prima dei consumatori. E lo diciamo consapevoli dei valori promossi dalla nostra piattaforma empowering consumers. È una questione di empowering producers! Bisogna investire nelle economie più arretrate e nelle infrastrutture agricole locali, rafforzando le filiere di distribuzione a breve distanza, cioè dalle aree urbane più ricche a quelle rurali, e poi quelle globali, aiutando le realtà più piccole a inserirsi nelle dinamiche del commercio internazionale e a seguire i dettami degli standard di sostenibilità che altrimenti rischiano di penalizzare proprio i produttori più vulnerabili. Il caso della Colombia è emblematico: la ridistribuzione di terre tolte dal controllo dei narcos e donate ai piccoli coltivatori poteva essere una mossa utile allo sviluppo del territorio. Peccato che le terre siano nel cuore della foresta amazzonica e quindi protette da leggi che gli agricoltori sono tenuti a rispettare… 

In tal senso l’Italia ha tutte le carte in regola per fare da capocordata a una grande operazione di sviluppo. Essere tra le migliori in Europa in fatto di contenimento dello spreco del cibo ne dimostra la sensibilità radicata nella sua società. La Cooperazione internazionale della Farnesina è un modello di diplomazia engagé. Il suo settore primario, composto per il 98,6% da piccole imprese competitive e innovative, rappresenta un potenziale bacino di trasferimento di conoscenze imprenditoriali, disponibili per realtà agricole che possono svilupparsi. Si può fare? Pensiamoci sabato. 

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